Fernanda Millevolte è morta nel 1998. Non aveva figli e, una volta andatosene anche il marito, sono rimasti soltanto la sua casa e gli oggetti che le erano appartenuti a comporre il ricordo tangibile della sua esistenza.
La cernita di questi testimoni muti, ciò che varrebbe la pena conservare e ciò che invece andrebbe buttato, è una sorta di rituale catartico, necessario a farci accettare, forse, quanto accaduto ma che a volte può riservare sorprese. È stato così che un giorno, in fondo ad una cassettiera, sono tornati alla luce 150 negativi fotografici Ferrania, contenuti in 3 astucci. A prima vista i negativi avevano retto magnificamente il tempo e, attraverso alcune ricerche in casa e presso altri parenti, si è giunti alla conclusione che non erano mai stati stampati.
Le foto sono state scattate in un periodo compreso tra la fine degli anni Trenta e la metà degli anni Cinquanta prevalentemente nella zona intorno alla ex stazione ferroviaria di Santa Vittoria in Matenano, che all’epoca era ancora in funzione, e più in generale nella media Val Tenna.
Scorrendole si nota chiaramente che la macchina fotografica era in mano a qualcuno che aveva poca dimestichezza con il mezzo, ma che probabilmente cercava di riprodurre ciò che aveva visto fare a fotografi professionisti in termini di composizione dell’immagine, intesa come scelta dei soggetti, loro relazioni con l’ambiente che li circonda, tipo di inquadratura, regola dei terzi. Anzi, l’anonimo autore sembra quasi trovare la sua cifra stilistica proprio nell’errore, tanto che le poche foto “corrette” sembrano quasi stonare con il resto della sua opera.
Sono foto amatoriali dunque ma non per questo poco importanti: la loro rilevanza risiede, da un lato, nel fatto che si tratta di una rara produzione fotografica non professionale (la maggior parte delle foto di quel periodo presenti nelle nostre case erano scattate in studi fotografici oppure da professionisti ambulanti); dall’altro lato hanno un valore documentale per quanto riguarda i soggetti fotografati: si tratta di famiglie contadine, forse parenti o vicini di casa dell’ignoto fotografo, che sono stati ritratti sia nel corso delle loro attività, sia improvvisando un set fotografico e che ci restituiscono dei quadri di vita reale, dura, innocente e senza filtri.